Nel suo capolavoro, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milan Kundera sostiene che l’esistenza umana, la vita di ciascuno di noi, non sia replicabile. È propriamente questa impossibilità che conferisce ai nostri itinerari esistenziali quella leggerezza insostenibile, preludio a una paradossale irrilevanza delle nostre scelte. Che ciascun attimo trascorso non ammetta ripetizioni è una sorte che condividiamo con tutti gli altri viventi. Noialtri però l’ avvertiamo, la sentiamo, ne siamo consapevoli in ragione del dispositivo, formatosi all’interno della vicenda evolutiva, che solo la nostra specie esibisce: il linguaggio, il pensiero verbale. Con ogni evidenza, come suggerisce la tradizione dell’antropologia filosofica, è soprattutto la facoltà del linguaggio che ci permette di andare oltre l’immediato, di trascendere il qui e ora, di agire con comportamenti flessibili, perlopiù orientati al futuro.
Le arti: pittura, scultura, danza, musica, letteratura, teatro, sono probabilmente tra i tentativi degli umani di concedersi altre chances. Le rappresentazioni artistiche, sia che le produciamo, sia che ne fruiamo, ci consentono esplorazioni di mondi possibili. Pensiamo alla lettura di un romanzo o alla visione di uno spettacolo teatrale: aprono all’immaginazione di altri mondi. Le forme artistiche però, a differenza della vita, si generano attraverso faticose repliche e innumerevoli prove: solo alcune di esse diventeranno opere. Al di là delle arti, l’attitudine alla immaginazione e alla costruzione di futuri possibili, diversi dal presente che viviamo, è uno stimolo alle azioni trasformative, collettive e individuali.
Nel 1912 Jacob Levi Moreno ha 23 anni, è un giovane studente di medicina, interessato anche alla matematica e alla filosofia. A Vienna segue le lezioni di Sigmund Freud che di anni ne ha 56. Al termine di uno degli incontri, invogliato dallo stesso Freud, Moreno pronuncia la famosissima frase riportata nella sua Autobiografia: “Ebbene, dottor Freud, io comincio dove lei finisce. Lei incontra le persone nel setting artificiale del suo ufficio. Io le incontro nelle strade e nelle loro case, nel loro ambiente. Lei analizza i loro sogni. Io do loro il coraggio di sognare ancora. Lei le analizza e le scompone. Io consento loro di agire i loro ruoli conflittuali e le aiuto a comporre le parti separate”.
Moreno diventerà uno psichiatra, ma soprattutto sarà il geniale inventore del sociodramma, della tecnica del sociogramma, del gioco dei ruoli (role-playing). I suoi interessi sono rivolti alla cura delle relazioni, delle reti sociali, dei conflitti intersoggettivi. In definitiva, lo si potrebbe considerare come il fondatore della microsociologia. Nella frase sopra riportata è già espresso in nuce il suo programma scientifico e di intervento. Il sogno non è solo un atto onirico, spesso angoscioso, da interpretare ma, attraverso la drammatizzazione, la messa in scena, è possibile che diventi un atto di coraggio per continuare a sognare. Da finestra interpretativa sul passato, il sogno apre al futuro possibile. Un percorso guidato dal desiderio di rendersi protagonista della propria vicenda esistenziale, di riprendere l’iniziativa, almeno in parte, del percorso di vita personale contribuendo, contemporaneamente, a ridisegnare un diverso quadro sociale.
“Il sociodramma si occupa di problemi che non possono essere né chiariti né trattati nel segreto di una stanza e nell’isolamento di due persone” è questo l’assunto di Moreno che ha il merito di mettere a fuoco il costrutto di ruolo: un’unità esperienziale che offre la possibilità di percepirsi, osservarsi e modificare le relazioni. Il sociodramma si propone di stimolare il soggetto nella creazione e strutturazione dei differenti ruoli: sociali, familiari, professionali, all’interno delle molteplici situazioni relazionali in cui egli è situato. Di più, la tecnica dell’inversione di ruolo, durante la rappresentazione socio drammatica, permette un semplice espediente: il soggetto ha l’opportunità di modificare la prospettiva sul proprio ruolo, integrandola con il punto di vista dell’altro, in virtù di una momentanea distanza dagli abiti solitamente indossati. Cosicché, l’inversione di ruolo può favorire l’innesco per azioni trasformative. E dunque, se non possiamo disporre di talenti artistici, possiamo tuttavia nel gioco del teatro assicurarci altre chances, altri futuri possibili.
Erving Goffman, tra i più notevoli e influenti sociologi, nel 1959 diede alle stampe uno dei suoi lavori più noti, The presentation of Self in Everyday Life (tradotto in edizione italiana con La vita quotidiana come rappresentazione). Scrive Goffman nella prefazione al testo “La prospettiva che viene usata in questo lavoro è quella della rappresentazione teatrale; i princìpi che ne derivano sono di tipo drammaturgico”.
La vita quotidiana è una rappresentazione nella quale ciascun individuo interpreta un ruolo insieme agli altri individui/attori coinvolti nel medesimo contesto sociale. Per Goffman c’è una stretta corrispondenza tra le interazioni degli attori sul palcoscenico, che interpretano il ruolo di un personaggio, e una conversazione ordinaria tra parlanti che assumono, a loro volta, sembianze di personaggi bifronte, dei quali appare in primo piano la metà che rende consapevole, l’altro interlocutore, di ciò che si pensa di lui. La vita somiglia a una rappresentazione teatrale (o a un racconto) perché è il nostro immaginario che ce la fa vedere così: le storie che rappresentiamo danno forma alla nostra percezione del mondo, disponendoci in un certo modo nei suoi confronti. “La natura umana e le crisi della vita sono ciò di cui abbiamo bisogno per rendere la vita teatralizzabile. Come spiegare altrimenti perché la vita appare così bene adatta per essere rappresenta in teatro?”.
Nel teatro della vita non ci è concessa la possibilità di provare e riprovare, così come accade sulla quinta di un palcoscenico: esperienze, eventi, accadimenti sono unici, transeunti: ha ragione Milan Kundera. Tuttavia, possiamo immaginare i futuri, averne una visione. Il futuro in larga misura è gravido di quotidianità prevedibili (abitudini, routine), e altresì di aspettative, aspirazioni, desideri, progetti, promesse, impegni, preoccupazioni, paure. Il futuro è un non ancora, ma averne una visione lo rende attivo nel qui e ora del presente. Aspirare a qualcosa, come un certo lavoro o una relazione sentimentale, vuol dire dare un senso al futuro inter-agendo e modificando il presente. E’ un buon motivo per contenere nei limiti del necessario le abitudini, così da evitare la gabbia del conformismo, sviluppando invece aspettative, desideri, aspirazioni che ci inducono a scorgere opportunità, ad aprirci al possibile: a ciò che potrebbe essere altrimenti.
La contemporaneità è attraversata da una crisi del futuro, anche l’espressione un po’ trita “il futuro non è più quello di una volta”, indica la torsione che subiscono le nostre visioni. La credenza egemone della modernità, che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi, ha alimentato, anche un po’ ingenuamente, la fiducia assoluta nel futuro, il cui orizzonte oggi si è così tanto ravvicinato da sembrare sovrapposto al presente. Nonostante un eccesso di possibilità, di innumerevoli identificazioni disponibili e di diversi corsi di azione che possiamo intraprendere, avvertiamo disagio, incertezza, sconcerto. Come, con efficacia, ha scritto il filosofo Paolo Virno, la nostra “è la vita nell’epoca della sua paralisi frenetica”.
Vorrei ora provare a tirare i fili delle riflessioni, necessariamente frammentarie, svolte finora.
Vita e teatro hanno molti punti di convergenza. Il futuro dell’oggi, sebbene sia un non ancora poco attraente, se si nutrisse di aspettative, aspirazioni e progetti potrebbe trasformarsi in un futuro desiderabile. Difficile, ma non impossibile. Le attività della vita quotidiana richiedono spesso l’uso di specifiche abilità: ragionamento, decisione, negoziazione di conflitti, risoluzione di problemi, comunicazione persuasiva, interpretazione dei tanti ruoli sociali, gestione di improvvise incontinenze emotive. E il gioco del teatro può aiutarci. Gli assunti di Moreno e Goffman ci danno un quadro teorico e di sperimentazione di notevole valore. Le prassi educative che anche in Italia si sono affinate negli ultimi trenta anni mi permettono di indicare il Teatro-formazione, con tutte le sue varianti (Teatro degli oppressi, Forum/Agorà, Teatro d’impresa) come un metodo che può stimolare la costruzione di futuri possibili e ancora desiderabili.
Sergio D’Angelo Riproduzione riservata