Il legno storto
Una serie televisiva americana di grande successo, trasmessa di recente anche in Italia, ha tra i protagonisti una psicologa alle dipendenze di una potente società finanziaria. La missione della dottoressa Wendy Rhoades è di “caricare” (non direi motivare) i dipendenti della big company. Discute con ciascuno di essi, durante vere e proprie sedute individuali, delle loro prestazioni, si (pre)occupa delle loro crisi relazionali, personali e familiari. E’ una fiction, certo. Ma è evidente che assistiamo, ormai da anni e non solo nelle organizzazioni, alla diffusione pervasiva di una asfissiante cultura terapeutica. Un tema che balza in alto rilievo per chi si occupa di apprendimento degli adulti nelle organizzazioni.
La formazione, soprattutto in anni recenti, si rivolge spesso al cosiddetto “pensiero positivo”: imparare l’ottimismo, ottenere successo e felicità nella vita, nel lavoro, nelle relazioni. E’ comprensibile che lo faccia, ma è almeno dubbia la sua efficacia. Quando si tratta d’interrogarsi e dialogare sulla condizione umana, sulla natura dell’animale umano, le scorciatoie sono il più delle volte vicoli ciechi. E le parole, che vorremmo squisite, rischiano di trasformarsi in chiacchiere petulanti. Un formatore è esposto continuamente al giudizio (severo) di coloro che partecipano alle sue attività. Che in genere sono adulti, spesso adulti informati, talvolta adulti con alti livelli di scolarità e ottime conoscenze. Chi presume di condurre altri in percorsi spesso impegnativi deve disporre di risorse adeguate. Non è un tuttologo, non ha sempre risposte prêt-à–porter, ma sa usare quello che sa. Una riflessione particolarmente efficace è quella di Pier Aldo Rovatti, contenuta in un piccolo (appena 99 pagine) ma prezioso libro, edito da Raffello Cortina, La filosofia può curare?
La filosofia, e per estensione direi la formazione tout court, non ha medici, né pazienti, né farmaci. Non cura malattie, ma può prendersi cura di coloro che incontra, anche se spesso la tentazione terapeutica è forte. Le pratiche formative richiedono invece una disposizione del consulente/formatore, non comune nelle organizzazioni, all’esercizio del pensiero critico. Esplorare e comprendere le ragioni del disagio relazionale, che talvolta diventa dolore inconfessato vissuto dagli uomini e dalle donne nei contesti aziendali, sono i compiti preliminari di prassi formative che vogliano mantenere le distanze da interventi ortopedici intesi a raddrizzare il “legno storto”.
Sergio D’Angelo