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Il più bello dei nomi

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Il declino della società moderna impone un inquietante punto di problema: la democrazia appare in crisi irreversibile, sia come metodo (istituzioni e norme che rendono possibile la rappresentanza) sia come paradigma (la partecipazione anche aspramente conflittuale dei cittadini alle decisioni, cioè al diritto di sovranità).

L’idea di democrazia nacque nelle città-stato della Grecia intorno al V secolo avanti Cristo. Forse, occorre partire da lì per scandagliare le ragioni della sua eclissi. Le poleis ebbero, al di là delle differenze tra esse, due princìpi costitutivi: l’eguaglianza distributiva (isomoirìa) e la parità effettiva dei diritti (isonomìa). “Distribuire a tutti una parte eguale – l’eguaglianza è in tutto la cosa migliore” (Focilide). “I poveri acquisiscono da coloro che possono e i ricchi danno a coloro che sono in bisogno, confidando gli uni e gli altri, in tal modo, di essere in condizioni di eguaglianza” (Archita)

Spartizione e distribuzione egualitarie furono nel mondo Greco fenomeni così pervasivi da influenzare non solo i meccanismi più profondi della vita quotidiana ma, altresì, la visione del mondo di quella società. “I fondatori del pensiero greco concepivano l’armonia in termini di eguaglianza. L’eguaglianza cosmica veniva considerata la garante della giustizia: l’ordine della natura viene mantenuto perché è un ordine di eguali” (Vlastos). Accanto all’eguaglianza distributiva, che da sola sarebbe risultata insufficiente a esprimere un’effettiva parità di diritti, emerse una forma di eguaglianza politica: l’isonomìa.
Parità nella vita civile e di fronte alla legge, le stesse possibilità offerte a tutti i cittadini di esercitare funzioni di controllo della vita collettiva. “Il governo dei molti produce prima di tutto il più bello dei nomi, l’isonomìa. In secondo luogo, non fa niente di ciò che fa chi comanda da solo: si distribuiscono le magistrature col sorteggio, si dà conto della autorità che si esercita e tutte le deliberazioni sono effettuate in comune…infatti è nei molti che tutto risiede” (Erodoto).

Il valore centrale del principio di eguaglianza fu, nella società greca, accettato da tutte le sue componenti, sia democratiche che oligarchiche-aristocratiche. Di più: fu principio societario di cui ciascun gruppo sociale provò ad appropriarsi.
In sintesi: la democrazia fu concepita come società di eguali. E’ pur vero che le poleis greche non avrebbero potuto elaborare e sperimentare forme politiche così avanzate, e fra le più originali, se non avessero realizzato un prezioso laboratorio sociale quale l’agorà: luogo della comunicazione tra privato e pubblico. Spazio in cui gli interessi delle due sfere si scontrano e tuttavia ritrovano nel primato del pubblico la guida alla buona vita. “In questo centro, ciascuno si ritrova eguale all’altro, nessuno è sottoposto a nessuno. In questo libero dibattito, che s’istituisce al centro dell’agorà, tutti i cittadini si definiscono come eguali, come simili” (Vernant).

Con la fine delle città-stato greche, la democrazia scomparve dai testi del pensiero politico e dalle prassi della politica. Bisognerà attendere la carica eversiva dell’Illuminismo per una sua nuova affermazione. L’assalto ai privilegi della nobiltà e del clero condotto prima dai teorici illuministi e poi dal Tiers ètat, sebbene fosse diretto ad affermare i diritti della borghesia, impose in termini universali le istanze radicali di quella classe “Io vedo nel genere umano due specie di ineguaglianze: la prima che chiamo naturale o fisica e l’altra, che si può chiamare ineguaglianza morale o politica. Questa consiste nei diversi privilegi di cui alcuni godono a scapito di altri, come di essere più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche di farsi obbedire.” (Rousseau). Di nuovo la democrazia sottende eguaglianza. Il lungo conflitto della modernità, inaugurato dalla Rivoluzione francese, ha per antagonisti borghesia e proletariato.
Entrambi affermano il valore della democrazia. Ma è il movimento operaio che, irrompendo nella storia, impone la politica al circuito capitalistico denaro-merce-denaro. Chiede conto per i vinti, per l’umanità che soccombe. Crea miti: una società senza classi.
Produce civiltà, giustizia sociale e giuridica: statuti, stato sociale, consigli di fabbrica. Gli anni Settanta del Novecento sono una frontiera. La politica e con essa la democrazia sperimenta forme inedite di partecipazione, tuttavia quel ciclo iniziato sul finire del Settecento si esaurisce e serra.

Il tramonto della società industriale porta con sé la classe operaia, che perde corpo e voce.
Scompare il soggetto politico collettivo. Il lavoro frantumato e corporativizzato è incapace di domandare tutele; impensabile che possa sostenere forme avanzate di giustizia sociale, riproponendo il principio di eguaglianza. Anzi, la società post-moderna cerca ossessivamente il privilegio. La diseguaglianza viene spacciata per principio naturale: la competizione è il suo valore derivato. Il consumo e i suoi simboli integrano e disciplinano, selezionano e creano nuove gerarchie sociali.
Interessi generali e servizi pubblici sono ridotti i primi a indifesi simulacri da abbattere definitivamente, i secondi a emblema di povertà e marginalità. E’ inutile citarne i teorici, basta osservare la pubblicità. La politica si riduce a tecnica di governo, ad aggettivo del sostantivo economia: far quadrare il bilancio, rientrare dai debiti, rispettare le compatibilità.
Esercizi di problem solving che servirebbero a garantire un supposto funzionamento del mercato. I fondamenti della politica sono crollati e la giustizia sociale derubricata dall’agenda istituzionale.
Parlamento, governo e magistratura non appaiono più in grado di assolvere ai loro compiti originari, scaturiti dall’onda lunga della Rivoluzione francese e sanciti dal dettato costituzionale. La crisi della democrazia sta qui. L’economia nelle sue espressioni neoliberali ha conquistato finanche il metodo democratico: mercato elettorale e conquista del consenso assurgono a obiettivi prioritari. Ne consegue l’esito disastroso a cui assistiamo quotidianamente, il crescente fenomeno della spoliticizzazione.
Le parole dello scrittore José Saramago, lucide e amare, impongono un’attenta riflessione “E’ vero, possiamo votare. E’ vero possiamo per mezzo della sovranità che ci è riconosciuta in qualità di cittadini elettori, e solitamente per mezzo dei partiti politici, scegliere i nostri rappresentanti al parlamento…Tutto ciò è ben vero, ma è anche vero che la nostra possibilità di azione democratica comincia e finisce lì”.

Sergio D’Angelo riproduzione riservata

 

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