Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore
(Bertolt Brecht)
L’uomo è l’animale che istituisce storie: il bisogno o, per dire meglio, il desiderio di narrarle dà senso e significato alle sue esperienze. E forse è un modo per raccontarsi quanto la vita sia sotto il suo controllo.
Nelle narrazioni vestiamo abiti diversi imparando a recitare i copioni dei tanti personaggi della commedia umana. Sebbene, con raffinato autoinganno, affermiamo che in fondo l’io narrante ha un’identità autentica: il proprio Sé.
Narrare le nostre storie offre una sponda a transiti e trambusti esistenziali mettendoci al riparo da spaesamenti e incertezze, maldestrezza e vergogna di cui la nostra specie porta stigmi indelebili.
E tuttavia l’inatteso urta la linearità narrativa, faticosamente costruita, facendola vacillare.
Siamo esposti all’errore. Quando sbagliamo è perché possiamo scegliere di farlo: della pietra che cade o del televisore che non si accende non diremmo propriamente che sono in errore.
La contemporaneità ci espone, come mai nel passato, ai passaggi repentini e ai conseguenti imprevisti dei tanti ruoli che proviamo a interpretare.
I destini individuali e collettivi si disfano con estrema facilità, lasciandoci in balìa di spaesamenti e incertezze.
Phronesis è un vocabolo del greco antico che, con qualche licenza, si potrebbe tradurre in abilità nel fare la cosa giusta.
Le attività dell’oggi, da quelle della vita quotidiana e professionale alle sporgenze esistenziali (accadimenti straordinari che colpiscono le nostre vite), richiedono continui esercizi e l’uso di specifiche facoltà: ragionamento, decisione, negoziazione dei conflitti, interpretazione dei tanti ruoli sociali, destrezza nel fronteggiare discorsi eterogenei, gestione di improvvise incontinenze emotive.
Non solo: risultano del tutto insufficienti i processi conoscitivi fondati sulla deduzione (c’è una regola da cui dato un caso, si inferisce un risultato) e sull’induzione (dato un caso e un risultato, se ne inferisce una regola). Abilità nel fare la cosa giusta è adottare ipotesi esplicative (abduttive) che possano essere confermate o rivelarsi errate, comunque in grado di esplorare nuove possibilità.
Non importa che l’ipotesi sia giusta (se ne possono sempre avanzare altre), quel che conta è ridurre l’ignoto e sorprenderci che si possa fare.
Perciò occorrerebbe riconoscere la bellezza dell’apprendimento che può trasformarci: della cura di sé, che non è concepibile senza la cura dei propri discorsi, e che nulla ha da spartire con un’indole solitaria. Tutt’altro, già da sempre l’esercizio della cura è iscritto nella socialità della sfera pubblica. Allora, per tenere a bada il congenito disadattamento di Homo sapiens, occorre potenziare le facoltà che gli permettano un buon uso della sua esistenza.
Raccontiamo quel che l’uomo è o che dev’essere tralasciando spesso quel che egli può fare di sé, della sua forma di vita.
Apprendere dall’errore non è il ritorno a una presunta giusta via, invece è riconoscere che siamo umani perché esploriamo il possibile: né quello che il mondo è, né quello che dev’essere, ma come potrebbe essere altrimenti.
Sergio D’Angelo
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