Da qualche decennio l’uso del termine creatività si è diffuso in ambiti quanto mai eterogenei. Dalla tradizionale creatività dell’artista che crea e dello scienziato che scopre o inventa a quella più recente del consulente d’immagine, dell’esperto di marketing o dell’influencer. Indagini sul futuro del lavoro stimano che, nei paesi a maggiore sviluppo economico, i lavoratori creativi crescerebbero nei prossimi anni fino al 40 per cento del totale degli occupati.
Sebbene Homo Sapiens possa considerarsi un animale come tutti gli altri animali, è indubbio che la creatività sia un tratto distintivo della specie umana. Gli animali non umani (comunque tra loro diversi per assetti biologici e comportamentali) mostrano istinti ad agire e schemi di azione rigidi che non possiamo estendere al vivente umano; in essi oggetti, eventi e altri organismi generano segnali percettivi prestabiliti (perlopiù innati) che innescano, senza una mediazione riflessiva, una re-azione corrispondente. Per cui la percezione nell’animale non umano attiva immediatamente una modalità comportamentale prestabilita e rigida.
Per l’umano invece nessun accadimento ha un significato che di per sé sia univoco, che inneschi cioè un agire istintivo. L’azione umana è sempre suscettibile di errore, di incomprensione, di simulazione, di ripensamento. Come ho sostenuto altrove “La nostra specie è esposta a una miriade di sollecitazioni mondane e ambientali che potenzialmente potrebbero avere molto, poco o nessun significato per l’esistenza: è questa una delle ragioni della connaturata incertezza umana. L’agire arbitrario, indeterminato, privo di un repertorio stereotipato di comportamenti, induce il vivente umano a non discriminare con congenita sicurezza ciò che è dannoso da ciò che lo favorisce” (D’Angelo, Sapiens, l’animale che si vergogna, Academia.edu).
Per orientarsi nel corso della sua vicenda evolutiva e storica, la specie umana ha costruito nicchie culturali, riti e regole sociali, culti e religioni, istituzioni e forme politiche. Ha consolidato abitudini che le permettono di sapere anche in anticipo come agire in molte situazioni ordinarie della vita. Il sociologo Pierre Bourdieu ha elaborato, nel corso di indagini empiriche e riflessioni teoriche, un concetto di enorme valore esplicativo, quello di habitus “Un sistema durevole e trasferibile di schemi, di percezione, di valutazione e di azione prodotto dal sociale che si istituisce nei corpi” L’habitus è costituito dalle disposizioni (attitudini) e dalle abilità acquisite durante la socializzazione e può variare in funzione del tempo, del luogo e della distribuzione del potere. Per Bourdieu la teoria dell’habitus permette di predire con buona approssimazione le azioni dei soggetti, conoscendone capitale sociale, economico e culturale e ipotizzando che non vogliano comportarsi in modo dissonante con il loro mondo sociale. Cosicché l’habitus darebbe origine a comportamenti regolari e attesi, coerenti col gruppo di appartenenza.
E allora, come possiamo spiegare il mutamento, la trasformazione, l’innovazione, in definitiva il comportamento creativo, pur in presenza di ripetitività e adattività? Si è visto che un organismo vivente non umano, situato nel suo ambiente, ha tendenzialmente un solo modo di rispondere agli stimoli, quello istintivo. Un vivente umano in ragione della sua connaturata incertezza e indecisione può invece dar corso a innumerevoli condotte. Può farlo perché il linguaggio, o meglio: la sua lingua storico-naturale, il pensiero verbale gli permettono di immaginare, ipotizzare, parlare con altri. Un dispositivo potente, contemporaneamente biologico e culturale, che consente di dire di qualcosa o di qualcuno che in quel momento non è presente, di inventare altri mondi, di negare, di comandare, di pregare, di mentire, di sedurre, di simulare, di fare cose con un solo enunciato (battezzare, sposare, promettere ecc.). Il linguaggio dà all’umano la possibilità di trascendere il qui e ora.
Il mondo degli umani, grazie al linguaggio, è costantemente aperto al possibile. E il possibile è ciò che non c’è; nella nota formulazione di Aristotele, quel che potrebbe essere altrimenti. Di più, il possibile non ha solo una dimensione temporale, generalmente riferita al futuro. C’è un possibile interpretativo: penso che quest’opera abbia un significato (possibile) del tutto diverso da quello assegnato dai critici; così come c’è un possibile immaginativo, un altro mondo. Vado a teatro e mentre assisto al dialogo tra Estragone e Vladimiro mi interrogo su chi o cosa sia Godot. Benché i possibili non ancora esistano o forse mai esisteranno hanno un’influenza notevole, qui e ora, su chi li immagina, li prevede, li progetta o li teme.
Il linguaggio umano, oltre a essere la condizione necessaria del possibile, comunque lo si voglia intendere, è esso stesso il dispositivo par excellence della creatività. Il linguista Noam Chomsky individua nella ricorsività la sua specifica caratteristica: da “un insieme finito di elementi si produce un assortimento potenzialmente infinito di espressioni” E’ questo il nucleo della capacità creativa umana. E lo posseggono tutti i parlanti. L’intenso rapporto tra linguaggio e creatività mostra un altro aspetto, per entrambi, fondativo: l’uso delle regole. Se è vero che gli enunciati che un parlante può proferire sono infiniti, affinché siano compresi, occorre che egli rispetti le regole grammaticali, sintattiche ecc. Azioni, espressioni verbali, opere che potremmo considerare creative non hanno origine in un vacuum, ma si riferiscono a stati precedenti, a tradizioni che magari verranno sobillate, stravolte dall’atto creativo ma che sono pregne almeno delle regole di senso comune. Creatività e regolarità non rappresentano poli antitetici che si escludono vicendevolmente. La regolarità, se non si esaurisce in una ripetitività coatta, può in alcune circostanze dar corso ad azioni trasformative che sono l’esordio della creatività che, più di improvvise e ingenue illuminazioni, ha bisogno di cognizione, conoscenza, scelte.
Vorrei, per concludere la mia riflessione, citare un esempio di Witz che in parte mi riguarda. Verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso una generazione di giovani rivoltosi elaborò tra i suoi possibili anche quello di sovvertire il mondo. Furono anni di accesi conflitti sociali, in quella temperie un gruppo colorato di “indiani metropolitani” coniò (o forse replicò) uno sberleffo che fu poi considerato tra gli atti più creativi di quel movimento “Una risata vi seppellirà”.
Potremmo dire che la creatività, ora che anche le neuroscienze revocano in dubbio il concetto di libertà umana, è la migliore approssimazione per sentirci ancora protagonisti delle nostre azioni.
Sergio D’Angelo
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